Tracce di fanciullino...

Eh, guarda Kappa... piove come quando eravamo bambini!
Kappa sono io. 
Mi chiamano quasi tutti così. Tranne i miei figli che mi chiamano "Mamma Kappa" e quelli che stanno a distanza, loro mi chiamano "Signora Zerbini", da cui colpo apoplettico e stramazzamento al suolo.
Kappa viene dalla "K" dentro il mio nome.
Boh, negli anni '70 Erika andava di moda, alcune con la C, altre con la K.
Fra noi detentrici di questo nome subito la competizione, che fra donne siamo speciali a sostenerci, ma anche distruggerci.
Così, fin da quando ho memoria, io mi presento "ErikaconlaKappa", abbreviato Kappa, giusto per precisare già da che parte sto. 
Negli anni '70 dalla parte strana, quella straniera, coi genitori strani che infilano una "K" nel nome di una piccola bambina... e poi come si fa la "K"? Provaci in corsivo e se ci riesci ti faccio un regalo! 
In ogni modo del mio nome sono gelosa e orgogliosa, ErikaconlaKappa, che con la "C" è un'altra persona: con lei ho litigato a sette anni perché voleva insegnare a me che Erika si scrive solo con la C.


Eh, guarda Kappa... piove come quando eravamo bambini!
Chi mi parla è mio marito. 
Lui questa mattina ha buttato lo sguardo fuori dalla finestra, si è soffermato sulla pioggia ed è tornato bambino.
Eh già...
Quando noi eravamo bambini pioveva.
Pioveva anche per giorni, il cielo grigio e cupo, lo scirocco a fare più calda una giornata che, senza sole e senza di lui, sarebbe stata fredda.
L'umido che increspava i capelli e da adolescente ci faceva imprecare, che nemmeno la stiratura con l'acido ci preservava dall'effetto istrice.
Da bambini la pioggia era l'impermeabile di plastica trasparente, con gli automatici a fissare le maniche a pipistrello, col cappuccio che alla prima folata di vento scappava e alla terza pioggia era squarciato irribediabilmente. 
Era l'ombrellino effetto fungo, trasparente anche quello: al diavolo il cappuccio! Finivi a fare il puffo e a guardare il mondo da un oblò.
Erano le galosce rosse e il cambio di scarpe nel sacchetto, per quando arrivavi a scuola zuppo come un pulcino.
Era lo scrosciare del torrente di Nervi, quando ancora il torrente c'era, poi è stato inghiottito dalla strada a doppio senso. Passavamo in fila indiana, noi bambine davanti e la mamma dietro, lungo il ponte che ci portava sulla terra ferma e sembrava di stare sospese sull'acqua, protette dalle enormi putrelle di ferro arrugginito che facevano da parapetto.
Poteva capitare che tracimasse, allora sembravamo camminare sull'acqua, sorrette dalle galosce rosse.
La maestra ci diede un compito in seconda elementare: "Pensierino sulla pioggia".
La pioggia bagna, la pioggia è triste, la pioggia è noiosa, la pioggia... non mi venne in mente nulla di originale.
Fu Stefano, quella volta, ad aggiudicarsi il voto migliore e i complimenti della maesta: lui espresse il pensiero più azzeccato.
Quando piove appiccico il naso al vetro e la guardo cadere.
Più o meno il senso era quello.
Così ogni volta che piove e appiccico il naso al vetro per guardarla cadere, penso alla mia maestra e a quanto sia stata brava nell'insegnarci a cogliere certi dettagli.
Oggi appiccico il naso al vetro, lo cospargo del vapore del mio respiro e spero che la pioggia resti solo pioggia, proprio come quando eravamo bambini. 
Si stava meglio quando si stava peggio, non ci sono più le mezze stagioni e la pioggia si è trasformata in bomba d'acqua.
Non oggi, per fortuna.

Etichette: , , , ,